Sono passati ormai oltre cinquant’anni da quando Paolo VI definì la Curia Romana come organo «all’avanguardia di quella perenne riforma, di cui la Chiesa stessa, in quanto istituzione umana e terrena, ha perpetuo bisogno»1: Papa Montini, in quell’occasione, annunziò ufficialmente la sua volontà di introdurre riforme, «graduali e ponderate», dirette ad evitare che la Curia, «organo fedele e docile del Capo della Chiesa (...)» finisse per trasformarsi in «una burocrazia, (…), pretenziosa ed apatica, solo canonista e ritualista, una palestra di nascoste ambizioni e di sordi antagonismi»2.
Da quel giorno, il supremo legislatore della Chiesa sembra aver compiuto molti passi diretti a rendere effettivo il programma di Paolo VI: ma – come è ben noto – l’ultimo atto normativo che ha costituito un vero e proprio progetto generale di riforma della Curia ha ormai compiuto i venticinque anni di età. Da molte parti, dunque, si è sottolineata la necessità di modificare l’impianto generale delineato dalla Costituzione Apostolica Pastor Bonus, in modo da rendere «l’insieme dei dicasteri e degli organismi che coadiuvano il romano Pontefice nell’esercizio del suo supremo ufficio pastorale» sempre più capaci di perseguire – con il mutare dei tempi – «il bene e il servizio della Chiesa universale e delle Chiese particolari, esercizio col quale si rafforzano l’unità di fede e la comunione del Popolo di Dio e si promuove la missione propria della Chiesa nel mondo».
Questo numero di Veritas et Jus è dedicato, in particolare, al progetto di riforma della Curia romana che è nelle intenzioni di Papa Francesco, soprattutto alla luce del fatto che, già nel mese di marzo, il nuovo Pontefice ha istituito una Commissione di esperti con il compito di studiare il tema della riforma di quel complexus Dicasteriorum et Institutorum, quæ Romano Pontifici adiutricem operam navant in exercitio eius supremi pastoralis muneris ad Ecclesiæ Universæ Ecclesiarumque particularium bonum ac servitium, quo quidem unitas fidei et communio populi Dei roboratur atque missio Ecclesiæ propria in mundo promovetur. In questo senso ringraziamo in modo particolare il Card. Francesco Coccopalmerio, Presidente del Pontificio Consiglio per i Testi legislativi, per la disponibilità a concedere al nostro Direttore di Veritas et Jus, Prof. Libero Gerosa, una intervista sulle possibile modifiche della Curia. Tale intervista è pubblicata nel presente numero, unitamente ad uno studio storico del Prof. Grohe sugli interventi del Card. Frings nel Concilio Vaticano II in merito all’organismo curiale. I due contributi ci danno spunti interessanti di riflessione per una questione tanto importante per la Chiesa che questa rivista continuerà a seguire anche nei prossimi numeri.
Ma a questo punto, nella nostra nuova qualifica di curatori di questa Rivista, ci sia consentito di ampliare le nostre osservazioni al futuro prossimo, al fine di cercare di creare una road map delle tematiche che ci sembrano più meritevoli di essere approfondite nei numeri che usciranno nella tarda primavera e nell’autunno del 2014.
Da aprile ad oggi, due sembrano essere gli eventi che – più da vicino – chiamano redattori e lettori di Veritas et Jus ad una riflessione approfondita: il dialogo tra Papa Francesco ed Eugenio Scalfari3 e la votazione popolare ticinese del 22 settembre 2013 avente ad oggetto il «divieto di dissimulazione del viso nei luoghi pubblici»4.
L’elezione di Papa Francesco ha suscitato una rilevante attenzione mediatica ed una notevole attesa da un punto di vista teologico e culturale. Tale attenzione e tali attese sono andate vieppiù aumentando nei primi sei mesi di pontificato, vuoi per la straordinaria capacità comunicativa di Jorge Mario Bergoglio, vuoi per la costante attenzione del pontefice a temi come la povertà e la giustizia sociale che – in tempi di crisi economica globale – sono percepiti in tutta la loro straordinaria rilevanza. Tuttavia un posto di straordinario rilievo nel pontificato di Francesco deve essere riconosciuto – almeno sino ad ora – al denso e articolato colloquio che il pontefice ha voluto intraprendere con uno dei più autorevoli esponenti del mondo laico italiano: quell’Eugenio Scalfari fondatore del quotidiano La Repubblica, sempre pronto a polemizzare con la gerarchia della Chiesa cattolica e con non poche scelte di politica ecclesiastica attuate in Italia5. Il dialogo Francesco-Scalfari, prima in forma epistolare poi di intervista, sembra invece cercare le assonanze tra la tradizione laica più attenta alle istanze della sinistra liberale e quel cattolicesimo conciliare che ha quale obbiettivo quello di contribuire alla costruzione del bene comune, definito dalla Gaudium et Spes come «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente» (n. 26).
Si aprono dunque nuove prospettive perché il dialogo interreligioso possa trasformarsi da «dialogo tra le religioni» a «dialogo tra tutti gli uomini di buona volontà a prescindere dalla fede professata o non professata». Senza dimenticare il ruolo chiave del principio di laicità dello Stato, il dialogo tra Francesco e Scalfari ripropone la centralità dei binomi fede-ragione e religione-amore già magistralmente evidenziati da Benedetto XVI nell’opera di confronto tra credenti e non credenti diretta a trovare una grammatica comune sulla quale strutturare la scrittura dei principi supremi su cui si fonda lo Stato democratico6. Stato che non può dirsi tale se non fa assurgere la dignità dell’uomo ed il rispetto del diritto di libertà religiosa quale centrum et culmen della sua azione.
Il numero 8 di Veritas et Jus intende entrare nel vivo delle questioni sollevate dal dialogo tra Francesco e Scalfari.
Quanto ai risultati della votazione popolare ticinese del 22 settembre scorso, con la quale è stata approvata, l’iniziativa popolare costituzionale del 15 marzo 2011 denominata «Vietare la dissimulazione del viso nei luoghi pubblici e aperti al pubblico», va detto che essa apre nuove ed importanti questioni relative alla regolamentazione della pluralità religiosa nella Confederazione elvetica.
Il popolo ticinese ha deciso di inserire nella Costituzione cantonale una nuova norma, l’art. 9a, in forza del quale nessuno può dissimulare o nascondere il proprio viso nelle vie pubbliche e nei luoghi aperti al pubblico (ad eccezione dei luoghi di culto) o destinati ad offrire un servizio pubblico, così esprimendo la volontà di limitare costituzionalmente la libertà di abbigliamento anche quando questa sia un corollario della libertà di religione. Burqa e niqab, capi di vestiario solitamente indossati da alcune donne di fede islamica allo scopo di ottemperare ai precetti della loro credenza (anche se interpretati secondo una chiave ermeneutica fortemente legata a tradizioni culturali), sono banditi dalle vie e dai luoghi aperti al pubblico, non diversamente da quanto stabilito dal parlamento francese nel 2010.
Non è questa, naturalmente, la sede per sottoporre ad esegesi approfondita il nuovo art. 9a della Carta fondamentale ticinese. Sarà al momento sufficiente evidenziare che il corpo elettorale si è pronunciato – in modo anche piuttosto netto – per esprimere la superiorità assiologica di un principio giuridico strettamente connesso al diritto alla sicurezza, qual quello della immediata riconoscibilità delle persone, sulla libertà di religione. Non dissimilmente da quanto avvenuto con l’iniziativa referendaria del 2009 diretta a vietare la costruzione di minareti sul territorio svizzero, il popolo (questa volta solo a livello cantonale) ha ritenuto di dover ancorare nella Carta costituzionale limiti precisi al libero esercizio di una fede religiosa: ritenendo così di poter (e dover) limitare il pluralismo etico sulla base della riaffermazione di principi (e valori) che appartengono alla tradizione.
Proprio il rapporto tra tradizione culturale radicata e tradizioni culturali di nuovo insediamento sembra essere, oggi, uno degli aspetti nodali su cui deve trovarsi a riflettere l’esperto di relazioni tra diritto e religione. L’idea che la professione della propria fede possa essere priva di limiti è oggi sempre più discussa e discutibile, soprattutto allorché le pratiche imposte da un determinato credo non rispettino la dignità umana, possano creare un turbamento di quell’equilibrio che segna il paesaggio antropico di un determinato ordinamento o costituiscano un vulnus per la sicurezza pubblica. Si riapre allora la questione su quali siano i limiti che un ordinamento può imporre alla libertà di religione senza violare i principi stabiliti dalle Carte internazionali poste a tutela dei diritti umani, soprattutto in un contesto – come quello elvetico – in cui il panorama religioso è soggetto a mutamenti sempre più incisivi. Di questo Veritas et Jus si occuperà nel numero 9/2014.
Ci sia consentito chiudere queste riflessioni sottolineando come, a partire dal numero 8/2014, Veritas et Jus sarà interessato da una svolta diretta ad accrescere la qualità scientifica della rivista. Gli articoli e i contributi saranno infatti soggetti, a partire dal prossimo numero, ad un processo di peer reviewing (revisione paritaria), ossia ad una valutazione eseguita da studiosi esperti esterni alla redazione diretta a verificarne l’idoneità alla pubblicazione scientifica. Il comitato dei revisori accoglie nomi di chiara ed indiscussa fama nell’ambito della comunità scientifica, e saprà garantire – ne siamo certi – un ulteriore innalzamento del valore di questo semestrale.
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