La lingua italiana conosce due parole differenti non distinguibili senza l’ausilio dell’articolo determinativo.
La prima parola è documentata soltanto al singolare: “la responsabilità” (es. “la responsabilità per qualcosa che ho commesso”).
La seconda parola è documentata, invece, per lo più al plurale: “le responsabilità” (es. “le responsabilità per il ruolo che rivesto”).
In corrispondenza di questi due usi linguistici si possono distinguere due concetti di responsabilità: una responsabilità che deriva da ciò che si è commesso (una responsabilità retrospettiva che “guarda all’indietro”) e una responsabilità che deriva dal ruolo, dalla funzione, dalla posizione che si ha nella vita di relazione (una responsabilità prospettiva che “guarda in avanti”).
La distinzione tra questi due concetti – come ha notato la filosofa ungherese Ágnes Heller – è così antica e così data per scontata che spesso non la si è presa nemmeno in esame.
Quando, per esempio, Caino, alla domanda di Dio: «Dov’è tuo fratello Abele?», risponde replicando: «Sono forse io il custode di mio fratello?», Caino rifiuta la propria responsabilità prospettiva: in particolare il dovere di custodia che ha nei confronti del fratello Abele, quantunque Dio lo avesse interrogato sulla sua responsabilità retrospettiva (sulla sua responsabilità per il fratricidio). Scrive la Heller:
«Caino dichiara di non essere il custode di suo fratello, in quanto nega la sua responsabilità per gli spostamenti del fratello. Ma in realtà Caino era stato interrogato sulla sua responsabilità retrospettiva per l’azione (in questo caso il fratricidio), responsabilità che Caino certamente porta indipendentemente dai doveri verso il fratello »1.
Sulla falsariga della domanda rivolta a Caino («Dov’è tuo fratello Abele?»), i contributi raccolti nel n. 10 di Veritas et Jus avviano una riflessione sulla visione di una “Chiesa povera per i poveri” a partire da tre domande, che oggi sono rivolte a noi, e chiamano in causa le nostre responsabilità (al plurale):
«Dov’è tuo fratello schiavo?», «Dov’è tuo fratello scartato?», «Dov’è tuo fratello povero?».
Nella Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, papa Francesco ha proposto, in continuità con l’insegnamento di san Giovanni XXIII, l’immagine di una «Chiesa povera per i poveri »2: una Chiesa che privilegi coloro che sono spesso disprezzati e dimenticati, «coloro che non hanno da ricambiarti» (Lc 14,14)3.
Ma: qual è il significato di questo amore preferenziale per i poveri? Che valore hanno la povertà e il possesso di beni per la Chiesa e la sua missione? È legittimo che la Chiesa acquisisca, possegga e amministri un proprio patrimonio? A che scopo esiste un patrimonio della Chiesa e quali conseguenze derivano per la sua amministrazione dalla sua intrinseca finalità?
Buona lettura!
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